Schiavi mussulmani nell’Italia moderna
Salvatore Bono
Schiavi musulmani nell’Italia moderna
(Galeotti, vù cumprà, domestici)
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1999, pagine 595, lire 70000
È un testo di fondamentale importanza per l’approfondimento della tematica della schiavitù in Italia dal secolo XVI al XIX. Come giustamente scrive l’autore questa è una storia taciuta poiché, in nome dell’onore nazionale e per non dispiacere alla Chiesa Cattolica, praticamente nessun libro di storia in uso nelle nostre scuole ne parla.
Il testo è corredato da una ricchissima bibliografia con ben 442 libri e articoli citati e oltre 100 fonti manoscritte e stampa d’epoca. L’indice dei nomi consta di 26 pagine e sono riportati perfino i nomi dei singoli schiavi, non li ho contati ma sono qualche centinaio. Ho invece conteggiato le citazioni relative alle città, indice sicuro della quantità di schiavi ivi presenti: Napoli 128, Livorno 98, Civitavecchia 84, Genova 83, Roma 64, Palermo 61, Venezia 48 ecc.
Gli schiavi deportati in Italia nell’età moderna possono essere stimati in circa 50000 er erano in gran maggioranza saraceni pur non mancando ebrei, cristiani ortodossi, negri animisti. Tra i centri schiavistici principali c’era la città pontificia di Civitavecchia, base della flotta papale. Altro che amore per il prossimo! Altro che umanesimo cristiano! Migliaia di esseri umani furono costretti a remare, volenti o nolenti, a suon di bastonate sulle galere del Santo Padre.
Non tutti gli schiavi finivano a fare i galeotti, alcuni erano al servizio di cardinali, vescovi, abati, suore e nobili vari, per esempio la regina Cristina di Svezia, che abitava a Roma, possedeva un gruppetto di schiavi. Inoltre è documentato come schiavi incatenati transitavano nel territorio papale per essere commerciati senza che il governo pontificio trovasse alcunché da dire.
A Roma esisteva una scuola dei catecumeni per istruire gli schiavi convertiti senza che ciò automaticamente significasse la loro liberazione. In certi casi gli schiavi fuggivano dal loro padrone per recarvisi venendo però rispediti indietro. Risulta chiaramente da documenti inoppugnabili che il clero diocesano possedeva non solo schiavi ma perfino schiave, e che quelle disgraziate servivano da concubine per saziare le voglie carnali dei preti.
Alcuni cappellani acquistavano schiavi per conto delle famiglie aristocratiche presso cui risiedevano: un missionario commerciò schiavi dalmati per rivenderli in Italia, una ricca monaca comprò una schiava per il proprio servizio nel 1521. Il cardinale Ippolito de’ Medici disponeva nel 1530 di un vero serraglio di schiavi per pura cupidigia e trastullo: numìdi, tartari, etiopi, indiani, turchi ecc. e tutti insieme parlavano più di venti lingue. L’ordine religioso-militare dei Cavalieri di Malta costituì nell’isola una tale concentrazione di schiavi musulmani da dare a questo Paese la più elevata percentuale di schiavi di questa religione rispetto alla popolazione totale dell’Europa.
Non si commerciavano solo schiavi adulti ma intere famiglie oppure madri con figli, e la schiava incinta valeva di più. Esistevano perfino tasse sulla compravendita degli schiavi. Gli schiavi erano equiparati agli animali domestici per cui potevano essere venduti, scambiati, ereditati, affittati, inventariati tra i beni di famiglia, pignorati dai creditori, dati come dote matrimoniale.
L’ultimo caso documentato di schiavismo in Italia risale al 1858, quando a Caserta lavoravano ancora alcuni musulmani adibiti alla costruzione della reggia borbonica.
Piero Marazzani, giugno 2001